Della rabbia e del coraggio

Portare pazienza, dissimulare sempre e in ogni circostanza: questo è ciò che ho imparato stando in Giappone in questi otto anni. Ho lavorato sodo, giorno dopo giorno, per fare spesso e resistente il mio tatemae 建前 (la facciata). Perché le relazioni, specie sul posto di lavoro, si basano tutte su questo filtro dell’apparenza che – in teoria – dovrebbe facilitare l’interazione, snellire i rapporti, togliere invece che aggiungere, così che tutto possa ridursi ai minimi termini.

Solo che, a furia di preservare l’honne 本音 (il vero sentire), ingoiare e dissimulare, trattenere e placare, si finisce, prima o poi, per fare i conti con la rabbia. Quella che quando ti assale, ti smuove ogni muscolo che hai in corpo. Quella che trabocca dagli occhi; invade bocca e narici. Quella che ti fa gonfiare il petto, come se non potessi più espirare. E nel frattempo, proprio quell’aria che resta come intrappolata dentro di te si fa catrame nei polmoni.

Ma ripensandoci, sono sempre stata così. Per evitare scontri che, in fondo, avrebbero solo fatto soffrire me, ho sempre preferito portarmi tutto dentro. Sono esplosa poche volte nella mia vita e quelle poche volte sono state un punto di non ritorno. Perché quando decido di tagliare con qualcosa o qualcuno, sono sempre risoluta e categorica.

Difficilmente torno sui miei passi. Ma, soprattutto, lascio la presa e giro i tacchi quando sono sicura, al cento per cento, che non me ne pentirò, che non proverò nessun tipo di rammarico o rimorso.

Gli ultimi anni, specie quelli post-Corona, mi hanno resa più fredda e distaccata. Qualcuno ha persino azzardato che sono diventata una “senza sentimenti, come i giapponesi” (cito testualmente). In realtà, io credo di essere semplicemente cresciuta. Il come lo ha solo deciso il corso degli eventi.

Se mi sento offesa? No. La cosa non mi scalfisce più di tanto, perché l’affermazione la dice lunga su quanto poco di me quel qualcuno sappia e, poi, perché il concetto implicito trasmesso, e cioè che “i giapponesi sono privi di sentimenti”, lo trovo assai mediocre, bigotto, trito e pure ignorante.

Chi lo ha detto che i giapponesi sono privi di sentimenti? Dov’è scritto?

Allo stesso modo, trovo stereotipato affermare che tutti i giapponesi sono gentili e cordiali. Questa mania che la gente ha di assolutizzare tutto, imbottigliare le culture, farne schemi con pochi (o nessuno) margini da lasciare al dubbio, mi spaventa e scoraggia.

Ed è forse anche per questo che ho deciso di guardarmi intorno.

Sono stata per anni fedele al Giappone e ne ho fatto il mio tutto: la mia ragione di vita da bambina, la mia passione da studente, il mio presente e pure il mio futuro.

Sarà, quindi, anche per questo che al momento sento il bisogno di prendere le distanze e provare altro.

Di punto in bianco, ho iniziato a guardare al di là della finestra di casa, piuttosto che al di là del ponte.

La Corea non era nei miei piani, così come non era nei miei piani programmare un viaggio (e pure da sola).

Non avrei nemmeno mai pensato di andare da Book Off e uscirne con quattro libri di coreano, e di svegliarmi alle quattro del mattino per ritagliarmi il tempo dello studio. “Chi te lo fa fare?” penserà qualcuno, ma questo è ciò che fanno molti dei giapponesi che conosco. Impiegare il tempo produttivamente, anche dovesse trattarsi di semplice ozio, è una cosa in cui riescono magnificamente. Ed è una delle cose per cui li stimo sinceramente.

E devo dire che da quando ho trovato questo nuovo appiglio di distrazione, sto meglio. Riesco persino a domare quella dose di rabbia che la quotidianità lavorativa, purtroppo, ogni tanto mi imbastisce.

Il mio viaggio a Seoul è imminente. Non so cosa aspettarmi… Sono emozionata, ma anche tanto agitata. Spero solo di godere al meglio di ogni singolo istante e tornare più forte e coraggiosa di prima, perché quest’anno – l’ho già preventivato – il coraggio è una delle cose che più mi serviranno.

♫In Silence

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